Durante un giro in un grande magazzino di Oita, il paese in cui ĆØ nata mia madre e prima ancora i suoi genitori, ho accidentalmente fatto cadere una campanella in finissima porcellana esposta nel reparto casalinghi. Prendendo la campanella dal nastrino di seta posto in cima, questo mi ĆØ rimasto in mano mentre la campanella si ĆØ frantumata a terra spaccandosi in mille pezzi. Il desiderio di sprofondare sottoterra era solo secondo al bisogno di far capire che non fosse colpa mia bensƬ del nastrino che era stato legato male. Lo sguardo di mia madre perĆ² in quel momento non mi lasciava dubbi: dovevo stare zitta e prostrarmi tirandomi contemporaneamente qualche frustata sulla schiena in segno di pentimento. In realtĆ non cā ĆØ stato bisogno di farlo perchĆ© la commessa, accorsa subito a vedere cosa fosse successo, mi ha bruciato sul tempo iniziando a chiedermi ripetutamente scusa per lo spiacevole incidente. Da non crederci: la profusione di inchini a 180 gradi non faceva che aumentare il mio senso di colpa e mi innestava di riflesso lo stesso movimento atletico. Ć stata una lunga lotta allā ultimo inchino e non ho vinto io.
Ć evidente che in Giappone chi rompe non solo nonĀ paga, ma riceve anche un sacco di scuse.
A proposito di inchini e grandi magazzini, la prima volta che andai in un department store giapponese mi sorprese molto vedere che alla base di ogni scala mobile cāera una signorina che, con voce molto gentile ma insistente, si inchinava e avvisava i clienti di attaccarsi bene allo scorrimano facendo attenzioni ai gradini. Un lavoro inutilmente stremante che ĆØ sparito.
La leggenda narra, sempre sul tema inchini, che dopo il mio primo soggiorno in Giappone allāetĆ di tre anni tornai in Italia continuando a fare inchini a tutti per un bel po’ di tempo a seguire. Buon DNA non mente!